Spielberg contro Robocop. Quando il videogioco bruciava la pellicola
Giuseppe Sedia
“Spielberg avrebbe voluto fare di E.T un gioco alla
Pacman, ma io volevo fare qualcosa di più originale”.
Howard Scott Warshaw, ex game designer Atari
Nella puntata della serie The Simpsons intitolata “The Springfield Files”, Milhouse videogioca ad una finta trasposizione arcade della pellicola fantascientifica Waterworld (1995), interpretata da Kevin Costner. L’avatar di Milhouse fa un passo su una scala prima della fulminea quanto assurda apparizione della scritta "Game Over” sullo schermo. La rappresentazione grafica di un videogioco fittizio viene utilizzata per alludere al clamoroso fiasco di un’opera cinematografica incapace di recuperare al botteghino costi di produzione per un valore complessivo di 135 milioni di dollari.
Pochi videogiocatori, cinefili,e addetti ai lavori - compreso Raid Harrison, sceneggiatore di The Springfield Files - sono al corrente del fatto che il film diretto da Kevin Reynolds ha conosciuto alcune trasposizioni videoludiche per tre diverse piattaforme di gioco: un gioco strategico in tempo reale per pc, un gioco di avventura con visuale isometrica per SNES, e un anonimo sparatutto per Virtual Boy, la peggiore piattaforma mai prodotta da Nintendo1.
La produzione di giochi elettronici basati su pellicole cinematografiche di successo può incentivare le vendite di un titolo videoludico, a condizione che il film dal quale è tratto abbia un riscontro adeguato nelle sale, come ha giustamente sottolineato Mick Musgrove2.
L’universo cinematografico ha subito spesso la politica parassitaria del videogioco. Lo sfruttamento di una licenza cinematografica di successo può amplificare il richiamo commerciale di un gioco elettronico. Inaugurata durante l’età dell’oro del videogioco, l’inevitabile “corsa alle licenze” da parte di numerose software house continua a implicare in numerosi casi una significativa perdita di risorse economiche sul fronte dello sviluppo dei giochi3. Una strategia commerciale talvolta enormemente redditizia per alcuni produttori di successo. L’adattamento videoludico sotto forma di racing game del film d’animazione Cars (2006), sviluppato dalla californiana THQ - sotto la supervisione dello studio Pixar - ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
La pratica degli adattamenti tra videogiochi e cinema non può esaurirsi in un mero travaso di un repertorio formale da un medium all’altro. Il testo videoludico e quello cinematografico si prestano a modalità narrative profondamente differenti. La sfortunata trasposizione su piattaforma Playstation della pellicola Il quinto elemento (1997) è soltanto uno dei tanti tie-in a tradire le atmosfere di una film. Il gioco si risolve in una pallida imitazione del gameplay di Tomb Raider in cui il seducente avatar di Lara è sostituito dal personaggio Leeloo interpretato da Mila Jovovich. Gli sviluppatori della Activision hanno ripartito la struttura di gioco in una serie di missioni liberamente inspirate alle sequenze chiavi del film diretto da Luc Besson. Con il risultato che la disposizione delle cut scenes che separano ogni missione finiscono per stravolgere lo sviluppo dell’intreccio originale. La marginalità del piano narrativo piega l’organizzazione delle sequenze di gioco non interattive alla struttura ludica. La tirannia del gameplay sacrifica il soggetto della pellicola per ridurre al minimo le interruzioni nelle sessioni di gioco.
Lungi dall’essere un semplice ostacolo alla consumazione del rito ludico, la componente narrativa restringe, ed allo stesso tempo espande l’esperienza del gioco. Sequenza dopo sequenza, gli intermezzi audiovisivi mettono a dura prova la concentazione dei videogiocatori offrendogli in cambio la possibilità di dettagliare un contesto virtuale. La narratio come (ri)definizione in potenza delle atmosfere del ludus. Le cut scenes nei videogiochi dell’era tridimensionale sarebbero allora i necessari intermezzi nella messa in scena del “cyberdrama”, per riprendere un’espressione coniata da Janet Murray4. Tuttavia tale definizione riservata agli elementi narrativi nei media digitali non si presta ad un impiego estensivo per tutte le tipologie di giochi elettronici.
Almeno fino alla metà degli anni novanta i grands récits sviluppati da Squaresoft rappresentavano soltanto una piccola quota dei videogiochi prodotti. Ancora più del rompicapo Q*bert (1982) con il suo avatar fumettoso, l’interfaccia di Tetris priva di riferimenti alla realtà, eppure assolutamente concreta per il suo rigore costruttivo non mette in scena alcun frammento narrativo. Sebbene importante in alcuni generi come nelle primitive text adventures, il racconto non è un elemento necessario nella messa in opera dei videogiochi garantita invece, dalla dinamica interattiva tra uomo e macchina, videogiocatore e gameplay.
Il dibattito sulla qualità dei giochi elettronici ha radici vecchie almeno quanto la prima e storica crisi Atari, culminata con la cessione del colosso videoludico alla Warner. Nel luglio del 1982, Atari lascia al game designer Howard Scott Warshaw quaranta giorni per sviluppare la trasposizione videoludica della pellicola E.T. l'extra-terrestre5. La cartuccia scompare presto dagli scaffali in ragione di un gameplay incoerente in cui lo scopo del giocatore è quello di mettere insieme i pezzi di un dispositivo per la comunicazione intergalattica6. Le diverse generazioni di critici videoludici continuano ad annoverare il tie-in tratto dal popolare film di Steven Spielberg, fra i titoli più brutti nella storia del videogioco7.
Un episodio che ha messo in guardia già negli anni ottanta, le software house sugli enormi rischi produttivi connessi allo sviluppo di giochi elettronici basati su altri prodotti audiovisivi di successo. In particolare l’episodio di E.T mostra come la corsa all’acquisto delle licenze sia spesso seguita da una catastrofica gara contro il tempo per confezionare i giochi commissionati dalle case madri. Gli sviluppatori costretti a rispettare termini di consegna inadeguati - talvolta fissati “a monte” dalle major cinematografiche - hanno raramente un tempo sufficiente per sviluppare opere audiovisive di buona tenuta. L’adattamento videoludico del film musicale The Blues Brothers (1980) diventato un platform game con un decennio di ritardo sull’uscita cinematografica della pellicola diretta da John Landis, dimostra come si possa sviluppare a posteriori un discreto gameplay preservando, al contempo, le atmosfere di un blockbuster.
Il buon riscontro del tie-in convertito su una decina di piattaforme spinge la francese Titus Software a sviluppare l’anno successivo il gioco Titus the Fox (1992) ricalcando sul gameplay del titolo dedicato alla coppia Belushi-Aykroyd. Il parziale insuccesso all’esordio videoludico della volpe bidimensionale - scelta dagli sviluppatori come mascotte della casa - conferma quanto l’acquisto di una licenza sia capace di orientare il consumo di un gioco elettronico, a prescindere dal suo valore ludico. Nella prima metà degli anni novanta la maggioranza delle licenze cinematografiche vengono acquistate dal third party del vecchio continente. Oltre a Titus si distinguono le britanniche Psygnosis (Bram Stoker's Dracula, Last Action Hero, Cliffhanger) diventata in seguito Sony Studio Liverpool, e sopratutto la “specialista di Manchester” Ocean Software.
Nel 1995 Ocean raggiunge il proprio apogeo nel settore videoludico detenendo una quota del 40% sul numero totale di licenze cinematografiche trasformate in giochi elettronici8. Anche se Robocop non ha accumulato il numero di gettoni di presenze videoludiche raggiunto da Indiana Jones e dai personaggi di Guerre Stellari9, la sua tripla apparizione sulla piattaforma 8 bit di Nintendo, si presta ad alcune considerazioni sulla ricorrente trascuratezza dei tie-in videoludici, con particolare riferimento alla ludografia della Ocean Software.
Sviluppata da Data East la prima versione NES di Robocop presenta un controllo sull’ambiente di gioco, limitato ad una dimensione ludica10. A causa dell’assenza nei comandi della possibilità di saltare; un comando di gioco presente invece nell’originale arcade originale e nelle sue trasposizioni su computer (ZX Spectrum, Commodore 64, Amstrad CPC); per il secondo capitolo, la scuderia Ocean stravolge il mediocre gameplay della prima adattameto trasformando l’avatar di Robocop nel protagonista di un mediocre gioco di piattaforme contraddistinto da grafica anonima e da una frustrante risposta ai comandi di gioco. Con la terza incarnazione NES la casa di sviluppo britannica riesce finalmente a sviluppare un gameplay più equilibrato, un compromesso accettabile tra momenti di fuoco e di salto.
La qualità altalenante della travagliata ludografia di Ocean Software, fagocitata nel 1998 da Infogrames, mette in evidenza la difficoltà per gli sviluppatori videoludici di addomesticare i contenuti creati per gli altri media audiovisivi in assenza di una progettualità forte. Una virtù produttiva che continua talvolta a mancare anche ai produttori cinematografici impegnati a (ri)mediare sul grande schermo alcuni popolari universi videoludici.
Bibliografia
Bernhardt Darren, Hollywood and video game industry profit from movie tie-ins in “Canada.Com”, 23 maggio 2007 http://www.canada.com/topics/technology/games.
Bittanti Matteo, Gli strumenti del videogiocare, logiche estetiche e (v)ideologie, Costa & Nolan, Milano 2005.
Frasca Gonzalo, Ludology meets Narratology: Similitude and Differences between (Video)games and Narrative in “Ludology”, 1999 http://www.ludology.org/articles/ludology.htm.
Grigoletto Federica, Videogiochi e cinema, CLUEB, Bologna 2006.
Jenkins Henry, Convergence Culture, Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York & London, 2006.
Jesper Juul, A Clash between Game and Narrative, Digital Arts and Culture conference, Bergen, Norway, Novembre 1998. http://www.jesperjuul.net/text/clash_between_game_and_narrative.html.
Kent L. Stephen., The Ultimate History of Video Games, Three Rivers Press, New York, 2001
Laurel Brenda, Computer as a Theater, Addison-Wesley Publishing Company, Boston 1993.
Ready For Your Close-Up in “Amiga Power”, maggio 2005.
Murray Janet, Hamlet on the Holodeck, MIT Press, Cambridge Mass 1998.
Musgrove Mick, Movie and Game Studios Getting the Total Picture in “The Washington Post”, 20 luglio 2006.
Poole Steven, Trigger Happy: Video Games and the Entertainment Revolution, Arcade Publishing, London 2005.
Ludografia
Bram Stoker's Dracula (1993), Psygnosis
Cars (2006), THQ
Cliffhanger (1993), Psygnosis
E.T (1982), Atari
Last Action Hero (1993), Psygnosis
Q*Bert (1982), Gottlieb
Robocop (1989), Data East
Robocop 2 (1991), Ocean Software
Robocop 3 (1992), Ocean Software
Tetris (1989), Nintendo
The Blues Brothers (1991), Titus Software
The Fifth Element (1998), Activision
Titus The Fox (1992), Titus Software
Tomb Raider (1996), Eidos Interactive
Waterworld (1995), Ocean Software
Note
1 Presentata in pubblico nel 1995 al salone Shoshinkai di Tokyo, la console portatile progettata da Gumpei Yokoi chiamata malignamente dal alcuni “Virtua Dog”, è stata abbandonata dopo meno di dodici mesi da Nintendo. La deblacle commerciale del Virtual Boy avrebbe incrinato definitivamente il rapporto tra il progettista e il colosso di Kyoto. Cfr. HERZ, The Ultimate History of Video Games pp. 513-525.
2 MUSGROVE, Movie and Game Studios Getting the Total Picture in “ The Washington Post”, 20 luglio 2006.
3 GRIGOLETTO, Videogiochi e cinema p. 53.
4 J. Murray è una figura di spicco nell’ambito della recente querelle che ha opposto narratologi e ludologi; Cfr. J. MURRAY, Hamlet on the Holodeck, MIT Press, Cambridge Mass 1998, Per approfondire l’opzione narratologica vedi anche Laurel Brenda, Computer as a Theater, Addison-Wesley Publishing Company, Boston 1993. Sul versante dei ludologi i testi di Espen Aarseth, Gonzalo Frasca, e in particolare Jesper Juul, A Clash between Game and Narrative, Digital Arts and Culture conference, Bergen, Norway, Novembre 1998.http://www.jesperjuul.net/text/clash_between_game_and_narrative.html.
5 HERZ, The Ultimate History of Video Games pp. 237-240.
6 Ibid. p. 239.
7 L’uscita di E.T (1982) può essere considerata a posteriori come l’ennesimo sintomo della crisi Atari che avrebbe chiuso l’anno successivo con un perdita di 536 milioni di dollari. Ibid. p. 240
8 Il dato si riferisce alle piattaforme Amiga. Per un abbecedario sui tie-in cinematografici dei primi anni novanta, vedi l’articolo Ready For Your Close-Up apparso nel numero di maggio 1995 della rivista inglese “Amiga Power”. Una trascrizione in inglese del testo è disponibile sul web all’indirizzo URL http://dspace.dial.pipex.com/town/estate/dh69/wos/world/ap/movies.htm.
9 La saga fantascientifica ideata da George Lucas rappresenta un caso unico nel panorama delle trasposizioni videoludiche, con oltre un centinaio di giochi elettronici ispirati all’universo formale e narrativo di Star Wars. Per un approndimento sul fenomeno Star Wars nella cultura di massa v. JENKINS, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide pp. 131-168. Per una ricognizione specifica sugli adattamenti videoludici di Guerre Stellari, vedi invece Star Wars: A Video Game Saga in “UnderGroundOnline”http://www.ugo.com/channels/games/features/starwarshistory/default.asp.
10 La distinzione tra dimensionalità “tecnica” e “ludica”; la seconda si riferisce gli assi di movimento dell’azione effettivamente controllati dal giocatore. FULCO, La sindrome di Stendhal in BITTANTI, Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche, (v)idelogie.
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