Ricordo
ancora l’emozione che ho provato nel lontano 2001, dopo essermi
imbattuto in un’avventura noir concepita da una dozzina di
programmatori arroccati in una piccola cittadina islandese, Espoo...
Mi basta guardare uno screenshot – per esempio, quello
pubblicato in questa pagina – per rivivere la rabbia e il
dolore che hanno accompagnato la scoperta dei corpi inerti di mia
moglie e di mio figlio, sterminati a sangue freddo da assassini senza
scrupoli... La sensazione di malinconia che pervadeva ogni locazione
di una New York crudele e indifferente... Ero rimasto ammaliato da un
sorprendente melange che prendeva a prestito l’estetica del
noir hollywoodiano e dei fumetti, l’intensità
funanbolica delle pellicole di John Woo e gli effetti speciali
avveniristici di “The Matrix”. Sto ovviamente parlando di
Max Payne, un’avvincente ‘storia’ di
espiazione e catarsi, violenza e vendetta. Un miscuglio di elementi
tipici del melodramma come dell’horror, con quel pizzico di
fantasy che proprio non ti aspetti – i continui riferimenti al
mito di Ragnarok e all’apocalisse descritta in mille leggende
nordiche. Il tutto intervallato da momenti e situazioni grottesche,
tipiche di un prodotto Made in Remedy Entertainment.
Per tutti questi
motivi, ho sofferto le pene dell’inferno durante la visione del
recente adattamento cinematografico diretto da John Moore. Alla luce
della sorprendente profondità ‘narrativa’ del
codice sorgente, non si può restare indifferenti di fronte
alla totale assenza di vitalità di una pellicola che si
colloca sugli stessi livelli di “Hitman”, altro
promettente adattamento imploso in fase di produzione. Come si spiega
questo ennesimo flop?
Sarebbe facile attribuire ai registi la piena
responsabilità. Ma tanto John Moore quanto Xavier Gens
(“Hitman”) sono dei bravi mestieranti, degli artigiani
competenti. Tutt’altro che geniali, ma pur sempre dotati di
talento. Il primo ha diretto una serie di pellicole di discreto
successo commerciale (tra cui l’action “videoludico”
“Behind Enemy Lines”), mentre il secondo è un
esponente di spicco della nouvelle vague dell’horror
estremo francese (che include, tra gli altri, film come “Haute
Tension”, “A L’interieur”, “Martyrs”
e, appunto, “Frontières” di Gens).
Sarebbe
altrettanto facile individuare negli sceneggiatori la ragione
primaria dello “scempio”, ma anche in questo caso,
finiremmo in un vicolo cieco. Dopo tutto, all’adattamento di
Max Payne ha partecipato uno degli sviluppatori del videogame,
Sam Lake, quindi non si può parlare di scarsa familiarità
con il testo originario. Similmente, la storia di “Hitman”
è stata scritta da Skip Woods, responsabile del discreto
“Swordfish”. Sul banco degli imputati restano solo due
figure: quelle dei produttori (è noto che la gestazione di
“Hitman” è stata particolarmente tormentata, ma lo
stesso vale per “Apocalypse Now” e per centinaia di altri
titoli) e degli attori (i commenti di Mark Wahlberg in fase di
pre-produzione – “Non ho mai giocato a Max Payne e
in generale mi tengo alla larga dai videogiochi perché temo di
diventare video-dipendente” – non hanno sicuramente
aiutato), ma anche in questi casi, la spiegazione non convince
pienamente.
I problemi di “Max Payne” e “Hitman”
non sono riducibili alle interpretazioni tutto sommato onorevoli dei
rispettivi protagonisti – Wahlberg in un caso, Timothy Olyphant
nell’altro. Dobbiamo allora concludere che il cinema dei
videogiochi non funziona per via delle differenze profonde che
sussistono tra i due media? In un certo senso, sì. La verità
é che Moore non ha adattato un videogame, ma ha assemblato
novanta
minuti di cut-scenes infarcite di cliché e di
stereotipi del genere action. La medesima accusa, beninteso, potrebbe
essere mossa al videogioco. Ma si finirebbe per perdere di vista la
natura interattiva del testo. Il cinema è narrazione,
il videogame interazione: acqua e olio. Il gameplay prevede
una successione di eventi debolmente collegati tra loro, una serie di
prove da superare, l’attraversamenteo di spazi di possibilità.
Un film è lineare e sequenziale.
Come tale, procede senza
l’intervento dello spettatore. Semmai, il vero cinema
technoludico è quello che assorbe per osmosi alcune
convenzioni del gioco digitale, reinterpretandole per fini narrativi:
l’effetto ghosting dei racing in “Speed Racer”,
le inquadrature allaTomb Raider nell’ultimo episodio
della “Mummia”, la logica del tutorial nell’altrimenti
pessimo “Eagle Eye”, la visualizzazione numerica delle
informazioni nei primi dieci minuti di “Stranger Than
Fiction”... Gli adattamenti funzionano solo quando sono
trasversali, indiretti, inaspettati.
In “Max Payne” di
giocoso non c’è proprio nulla. Non basta proporre scene
animate non-interattive all’interno di un videogame per
ottenere un film. Analogamente, non basta evocare le situazioni e i
personaggi di un videogame per creare un’esperienza
videoludica sul grande schermo. Finché Hollywood si
ostinerà a trasporre sullo schermo gli elementi meno
significativi e rilevanti di un videogame, la visione degli
adattamenti continuerà ad essere un’esperienza
“massimamente dolorosa”, per parafrasare il titolo di
quest’ultimo disastro.
Game over? Passiamo direttamente ai titoli di coda...
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