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L’ultimo numero di SegnoGAME, la rubrica di Marco Benoît Carbone dedicata ai rapporti tra cinema e videogioco, è in edicola su Segnocinema.
02. GAMER – La società dei simulacri. Distopia e distrazioni di massa al tempo degli FPS
Le visioni di società di spettatori – le cui folle sono talmente assuefatte alla Realtà Integrale delle immagini al punto di non distinguere più tra la cronaca e la propaganda, tra lo spettacolo e lo snuff, tra il privato e il pornografico – è stata l’oggetto di una vasta tradizione filmica, con un preciso sottofilone articolato tra Rollerball, il suo remake e The Running Man.
L’update sub specie ludi operato da Gamer (2009 – di M. Neveldine e B. Taylor) su questo ramo della distopia cinematografica oscilla tra il voyeurismo e il puritanesimo nel preconizzare un futuro in cui la pornografia e lo sport ultraviolento, distrazioni di massa di una società bassa e decerebrata, passano attraverso lo sfruttamento diretto dei corpi degli altri, reclutati come avatar di giochi grotteschi…
Osservando il gioco elettronico e il cinema nei loro rapporti reciproci, SegnoGAME si propone di gettare luce sull’evoluzione tecnologica, linguistica, estetica e culturale di queste forme espressive.
Segnocinema é una rivista bimestrale di teoria e critica del cinema, fondata nel 1981. Ogni numero di Segnocinema si apre con una sezione di saggi e interventi, e si chiude con un’area di rubriche monografiche su argomenti quali la recitazione, il sound design, le serie televisive, il cortometraggi, la videoarte, le colonne musicali dei film, i libri di argomento cinematografico, il gioco elettronico.
Nelle altre uscite di SegnoGAME:
01. AVATAR – Il 3D delle coscienze. Doppio tecnologico e intrattenimento delle masse
L’eye-candy di Avatar, lo spettacolo visivo che già tutti conoscono, è una forma che diviene contenuto. Film e gioco sono mere confezioni del vero prodotto: la tecnologia stessa. E tuttavia lo spettacolo immersivo non si esaurisce in sala ma è al contempo anteprima extralusso e prodotto complementare per l’home market – del cinema come dei giochi – degli occhiali e schermi 3D.
Avatar il film metaforizza la dislocazione dello spettatore nel corpo virtuale attraverso il nesso fondamentale dell’interfaccia, e dal punto di vista dei suoi rapporti con il videogioco è un esempio da manuale di convergenza semplicemente perché tutto in esso – dal titolo al nucleo semantico, dal soggetto al marketing, attraverso ogni fase della produzione – evoca e innesta il rapporto tra la realtà reale e quella virtuale, tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto, tra l’essere e l’apparire, tra il vedere e l’agire.
Il lavaggio delle coscienze – pacifiste solo nelle metafore a schermo – è a 360 gradi.
Link: Segnogame
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Alexis Blanchet, dottorando in Studi Cinematografici presso ;'Université Paris Ouest Nanterre La Défenseuno degli autori di Schermi Interattivi, e' stato recentemente intervistato da Game Developer Magazine. Sul suo eccellente blog, Alexis ha proposto in lingua inglese una parte del suo saggio incluso nel volume edito da Meltemi. Buona lettura!
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Spielberg contro Robocop. Quando il videogioco bruciava la pellicola
Giuseppe Sedia
“Spielberg avrebbe voluto fare di E.T un gioco alla
Pacman, ma io volevo fare qualcosa di più originale”.
Howard Scott Warshaw, ex game designer Atari
Nella puntata della serie The Simpsons intitolata “The Springfield Files”, Milhouse videogioca ad una finta trasposizione arcade della pellicola fantascientifica Waterworld (1995), interpretata da Kevin Costner. L’avatar di Milhouse fa un passo su una scala prima della fulminea quanto assurda apparizione della scritta "Game Over” sullo schermo. La rappresentazione grafica di un videogioco fittizio viene utilizzata per alludere al clamoroso fiasco di un’opera cinematografica incapace di recuperare al botteghino costi di produzione per un valore complessivo di 135 milioni di dollari.
Pochi videogiocatori, cinefili,e addetti ai lavori - compreso Raid Harrison, sceneggiatore di The Springfield Files - sono al corrente del fatto che il film diretto da Kevin Reynolds ha conosciuto alcune trasposizioni videoludiche per tre diverse piattaforme di gioco: un gioco strategico in tempo reale per pc, un gioco di avventura con visuale isometrica per SNES, e un anonimo sparatutto per Virtual Boy, la peggiore piattaforma mai prodotta da Nintendo1.
La produzione di giochi elettronici basati su pellicole cinematografiche di successo può incentivare le vendite di un titolo videoludico, a condizione che il film dal quale è tratto abbia un riscontro adeguato nelle sale, come ha giustamente sottolineato Mick Musgrove2.
L’universo cinematografico ha subito spesso la politica parassitaria del videogioco. Lo sfruttamento di una licenza cinematografica di successo può amplificare il richiamo commerciale di un gioco elettronico. Inaugurata durante l’età dell’oro del videogioco, l’inevitabile “corsa alle licenze” da parte di numerose software house continua a implicare in numerosi casi una significativa perdita di risorse economiche sul fronte dello sviluppo dei giochi3. Una strategia commerciale talvolta enormemente redditizia per alcuni produttori di successo. L’adattamento videoludico sotto forma di racing game del film d’animazione Cars (2006), sviluppato dalla californiana THQ - sotto la supervisione dello studio Pixar - ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
La pratica degli adattamenti tra videogiochi e cinema non può esaurirsi in un mero travaso di un repertorio formale da un medium all’altro. Il testo videoludico e quello cinematografico si prestano a modalità narrative profondamente differenti. La sfortunata trasposizione su piattaforma Playstation della pellicola Il quinto elemento (1997) è soltanto uno dei tanti tie-in a tradire le atmosfere di una film. Il gioco si risolve in una pallida imitazione del gameplay di Tomb Raider in cui il seducente avatar di Lara è sostituito dal personaggio Leeloo interpretato da Mila Jovovich. Gli sviluppatori della Activision hanno ripartito la struttura di gioco in una serie di missioni liberamente inspirate alle sequenze chiavi del film diretto da Luc Besson. Con il risultato che la disposizione delle cut scenes che separano ogni missione finiscono per stravolgere lo sviluppo dell’intreccio originale. La marginalità del piano narrativo piega l’organizzazione delle sequenze di gioco non interattive alla struttura ludica. La tirannia del gameplay sacrifica il soggetto della pellicola per ridurre al minimo le interruzioni nelle sessioni di gioco.
Lungi dall’essere un semplice ostacolo alla consumazione del rito ludico, la componente narrativa restringe, ed allo stesso tempo espande l’esperienza del gioco. Sequenza dopo sequenza, gli intermezzi audiovisivi mettono a dura prova la concentazione dei videogiocatori offrendogli in cambio la possibilità di dettagliare un contesto virtuale. La narratio come (ri)definizione in potenza delle atmosfere del ludus. Le cut scenes nei videogiochi dell’era tridimensionale sarebbero allora i necessari intermezzi nella messa in scena del “cyberdrama”, per riprendere un’espressione coniata da Janet Murray4. Tuttavia tale definizione riservata agli elementi narrativi nei media digitali non si presta ad un impiego estensivo per tutte le tipologie di giochi elettronici.
Almeno fino alla metà degli anni novanta i grands récits sviluppati da Squaresoft rappresentavano soltanto una piccola quota dei videogiochi prodotti. Ancora più del rompicapo Q*bert (1982) con il suo avatar fumettoso, l’interfaccia di Tetris priva di riferimenti alla realtà, eppure assolutamente concreta per il suo rigore costruttivo non mette in scena alcun frammento narrativo. Sebbene importante in alcuni generi come nelle primitive text adventures, il racconto non è un elemento necessario nella messa in opera dei videogiochi garantita invece, dalla dinamica interattiva tra uomo e macchina, videogiocatore e gameplay.
Il dibattito sulla qualità dei giochi elettronici ha radici vecchie almeno quanto la prima e storica crisi Atari, culminata con la cessione del colosso videoludico alla Warner. Nel luglio del 1982, Atari lascia al game designer Howard Scott Warshaw quaranta giorni per sviluppare la trasposizione videoludica della pellicola E.T. l'extra-terrestre5. La cartuccia scompare presto dagli scaffali in ragione di un gameplay incoerente in cui lo scopo del giocatore è quello di mettere insieme i pezzi di un dispositivo per la comunicazione intergalattica6. Le diverse generazioni di critici videoludici continuano ad annoverare il tie-in tratto dal popolare film di Steven Spielberg, fra i titoli più brutti nella storia del videogioco7.
Un episodio che ha messo in guardia già negli anni ottanta, le software house sugli enormi rischi produttivi connessi allo sviluppo di giochi elettronici basati su altri prodotti audiovisivi di successo. In particolare l’episodio di E.T mostra come la corsa all’acquisto delle licenze sia spesso seguita da una catastrofica gara contro il tempo per confezionare i giochi commissionati dalle case madri. Gli sviluppatori costretti a rispettare termini di consegna inadeguati - talvolta fissati “a monte” dalle major cinematografiche - hanno raramente un tempo sufficiente per sviluppare opere audiovisive di buona tenuta. L’adattamento videoludico del film musicale The Blues Brothers (1980) diventato un platform game con un decennio di ritardo sull’uscita cinematografica della pellicola diretta da John Landis, dimostra come si possa sviluppare a posteriori un discreto gameplay preservando, al contempo, le atmosfere di un blockbuster.
Il buon riscontro del tie-in convertito su una decina di piattaforme spinge la francese Titus Software a sviluppare l’anno successivo il gioco Titus the Fox (1992) ricalcando sul gameplay del titolo dedicato alla coppia Belushi-Aykroyd. Il parziale insuccesso all’esordio videoludico della volpe bidimensionale - scelta dagli sviluppatori come mascotte della casa - conferma quanto l’acquisto di una licenza sia capace di orientare il consumo di un gioco elettronico, a prescindere dal suo valore ludico. Nella prima metà degli anni novanta la maggioranza delle licenze cinematografiche vengono acquistate dal third party del vecchio continente. Oltre a Titus si distinguono le britanniche Psygnosis (Bram Stoker's Dracula, Last Action Hero, Cliffhanger) diventata in seguito Sony Studio Liverpool, e sopratutto la “specialista di Manchester” Ocean Software.
Nel 1995 Ocean raggiunge il proprio apogeo nel settore videoludico detenendo una quota del 40% sul numero totale di licenze cinematografiche trasformate in giochi elettronici8. Anche se Robocop non ha accumulato il numero di gettoni di presenze videoludiche raggiunto da Indiana Jones e dai personaggi di Guerre Stellari9, la sua tripla apparizione sulla piattaforma 8 bit di Nintendo, si presta ad alcune considerazioni sulla ricorrente trascuratezza dei tie-in videoludici, con particolare riferimento alla ludografia della Ocean Software.
Sviluppata da Data East la prima versione NES di Robocop presenta un controllo sull’ambiente di gioco, limitato ad una dimensione ludica10. A causa dell’assenza nei comandi della possibilità di saltare; un comando di gioco presente invece nell’originale arcade originale e nelle sue trasposizioni su computer (ZX Spectrum, Commodore 64, Amstrad CPC); per il secondo capitolo, la scuderia Ocean stravolge il mediocre gameplay della prima adattameto trasformando l’avatar di Robocop nel protagonista di un mediocre gioco di piattaforme contraddistinto da grafica anonima e da una frustrante risposta ai comandi di gioco. Con la terza incarnazione NES la casa di sviluppo britannica riesce finalmente a sviluppare un gameplay più equilibrato, un compromesso accettabile tra momenti di fuoco e di salto.
La qualità altalenante della travagliata ludografia di Ocean Software, fagocitata nel 1998 da Infogrames, mette in evidenza la difficoltà per gli sviluppatori videoludici di addomesticare i contenuti creati per gli altri media audiovisivi in assenza di una progettualità forte. Una virtù produttiva che continua talvolta a mancare anche ai produttori cinematografici impegnati a (ri)mediare sul grande schermo alcuni popolari universi videoludici.
Bibliografia
Bernhardt Darren, Hollywood and video game industry profit from movie tie-ins in “Canada.Com”, 23 maggio 2007 http://www.canada.com/topics/technology/games.
Bittanti Matteo, Gli strumenti del videogiocare, logiche estetiche e (v)ideologie, Costa & Nolan, Milano 2005.
Frasca Gonzalo, Ludology meets Narratology: Similitude and Differences between (Video)games and Narrative in “Ludology”, 1999 http://www.ludology.org/articles/ludology.htm.
Grigoletto Federica, Videogiochi e cinema, CLUEB, Bologna 2006.
Jenkins Henry, Convergence Culture, Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York & London, 2006.
Jesper Juul, A Clash between Game and Narrative, Digital Arts and Culture conference, Bergen, Norway, Novembre 1998. http://www.jesperjuul.net/text/clash_between_game_and_narrative.html.
Kent L. Stephen., The Ultimate History of Video Games, Three Rivers Press, New York, 2001
Laurel Brenda, Computer as a Theater, Addison-Wesley Publishing Company, Boston 1993.
Ready For Your Close-Up in “Amiga Power”, maggio 2005.
Murray Janet, Hamlet on the Holodeck, MIT Press, Cambridge Mass 1998.
Musgrove Mick, Movie and Game Studios Getting the Total Picture in “The Washington Post”, 20 luglio 2006.
Poole Steven, Trigger Happy: Video Games and the Entertainment Revolution, Arcade Publishing, London 2005.
Ludografia
Bram Stoker's Dracula (1993), Psygnosis
Cars (2006), THQ
Cliffhanger (1993), Psygnosis
E.T (1982), Atari
Last Action Hero (1993), Psygnosis
Q*Bert (1982), Gottlieb
Robocop (1989), Data East
Robocop 2 (1991), Ocean Software
Robocop 3 (1992), Ocean Software
Tetris (1989), Nintendo
The Blues Brothers (1991), Titus Software
The Fifth Element (1998), Activision
Titus The Fox (1992), Titus Software
Tomb Raider (1996), Eidos Interactive
Waterworld (1995), Ocean Software
Note
1 Presentata in pubblico nel 1995 al salone Shoshinkai di Tokyo, la console portatile progettata da Gumpei Yokoi chiamata malignamente dal alcuni “Virtua Dog”, è stata abbandonata dopo meno di dodici mesi da Nintendo. La deblacle commerciale del Virtual Boy avrebbe incrinato definitivamente il rapporto tra il progettista e il colosso di Kyoto. Cfr. HERZ, The Ultimate History of Video Games pp. 513-525.
2 MUSGROVE, Movie and Game Studios Getting the Total Picture in “ The Washington Post”, 20 luglio 2006.
3 GRIGOLETTO, Videogiochi e cinema p. 53.
4 J. Murray è una figura di spicco nell’ambito della recente querelle che ha opposto narratologi e ludologi; Cfr. J. MURRAY, Hamlet on the Holodeck, MIT Press, Cambridge Mass 1998, Per approfondire l’opzione narratologica vedi anche Laurel Brenda, Computer as a Theater, Addison-Wesley Publishing Company, Boston 1993. Sul versante dei ludologi i testi di Espen Aarseth, Gonzalo Frasca, e in particolare Jesper Juul, A Clash between Game and Narrative, Digital Arts and Culture conference, Bergen, Norway, Novembre 1998.http://www.jesperjuul.net/text/clash_between_game_and_narrative.html.
5 HERZ, The Ultimate History of Video Games pp. 237-240.
6 Ibid. p. 239.
7 L’uscita di E.T (1982) può essere considerata a posteriori come l’ennesimo sintomo della crisi Atari che avrebbe chiuso l’anno successivo con un perdita di 536 milioni di dollari. Ibid. p. 240
8 Il dato si riferisce alle piattaforme Amiga. Per un abbecedario sui tie-in cinematografici dei primi anni novanta, vedi l’articolo Ready For Your Close-Up apparso nel numero di maggio 1995 della rivista inglese “Amiga Power”. Una trascrizione in inglese del testo è disponibile sul web all’indirizzo URL http://dspace.dial.pipex.com/town/estate/dh69/wos/world/ap/movies.htm.
9 La saga fantascientifica ideata da George Lucas rappresenta un caso unico nel panorama delle trasposizioni videoludiche, con oltre un centinaio di giochi elettronici ispirati all’universo formale e narrativo di Star Wars. Per un approndimento sul fenomeno Star Wars nella cultura di massa v. JENKINS, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide pp. 131-168. Per una ricognizione specifica sugli adattamenti videoludici di Guerre Stellari, vedi invece Star Wars: A Video Game Saga in “UnderGroundOnline”http://www.ugo.com/channels/games/features/starwarshistory/default.asp.
10 La distinzione tra dimensionalità “tecnica” e “ludica”; la seconda si riferisce gli assi di movimento dell’azione effettivamente controllati dal giocatore. FULCO, La sindrome di Stendhal in BITTANTI, Gli strumenti del videogiocare. Logiche, estetiche, (v)idelogie.
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I Nel 1951 la funzione principale della pellicola era quella di riflettere e allarmare indirettamente lo spettatore riguardo al blocco di potenze creatosi al principio della Guerra Fredda, attraverso un messaggio anti-militare proveniente da una entità aliena totalmente antropomorfa, Klaatu (Michael Rennie). L’alieno metteva in guardia le potenze della Terra sulla eventuale distruzione del genere umano se gli uomini non avessero cessato con la minaccia atomica che metteva a repentaglio l’esistenza del pianeta stesso e dei pianeti circostanti. Oggi il messaggio del remake di Derrickson possiede un tono più apocalittico, lasciando intendere che l’eliminazione del genere umano è ritenuta necessaria data l’impossibilità di estirpare l’egoistica violenza interpersonale connaturata all’Uomo, la quale si ripercuote ovunque, dalle risorse della Terra alle specie viventi all’ecosistema globale tutto. Durante le prime scene del film lo spettatore può notare che nella camera del figlio di Will Smith (Jaden Smith) fanno capolino leziose inquadrature di una miniatura di Master Chief in bellica posa, World of Warcraft in azione sullo schermo del suo portatile (Lg) e un poster semi-nascosto dietro una porta ove si riconosce il famoso anello di Halo sospeso nell’universo. Successivamente vengono immortalati i servizi segreti americani, una Intelligence di autorità china ad osservare un ampio schermo tattico. Mentre l’intelligence discute sul da farsi vediamo affiorare il colorato logo di Windows sullo schermo: che si tratti forse di una ironica garanzia di stabilità ed integrità strutturale offerta da casa Redmond per i sistemi di Difesa più strategicamente delicati in America? Infine, l’incontro tra il protagonista Klaatu (Keanu Reeves) e un altro alieno avviene nientemeno che all’interno di in un McDonald’s, con tanto di macchina da presa che indugia sulla inveterata insegna. L Il messaggio è piuttosto chiaro quanto delineato: tutti gli uomini sono chiamati in causa per loro natura, dalla coscienza anti-ecologica del singolo consumatore alle multinazionali che attraverso l’egemonia del potere capitalista fomentano l’industrializzazione sfrenata a scapito delle risorse terrestri, il concetto no-global è intrinsecamente connaturato al nucleo centrale della pellicola diretta da Derrickson. Al fine di una integrità quantomeno ideologica (oltre che artistica) del testo, i grandi nomi erano l’ultima cosa da trattare, se non la prima da tralasciare. Ne risulta invece che gli stessi agenti ideologicamente chiamati in causa finiscono invece con l’auto-promuoversi attraverso una presenza che risulta quindi contraddittoria quanto imbarazzante. Senza entrare nel merito dei rapporti di produzione e distribuzione che interessano il cinema e i VG, o il concetto di autorialità espressiva dissolto fra le dinamiche di arte e pubblicità, i videogiochi hanno per fortuna una relazione più ideologicamente comprensibile con la stessa. Dal canto suo Microsoft ha siglato invece un'intesa con Electronic Arts in modo da portare la propria pubblicità sui titoli prevalentemente sportivi e comprensibilmente votati alla stessa (Madden, Nascar, Tiger Woods, NHL Skate…). Grazie alla tecnologia di Massive acquisita da Microsoft, che permette di gestire in modo dinamico gli spazi destinati alla pubblicità nei mondi virtuali (tabelloni pubblicitari, schermi televisivi, le insegne dei negozi, contenitori di cibo e bevande), le immagini possono essere quindi aggiornate quasi in tempo reale, dove in precedenza il Product Placement avveniva invece per singoli VG nei quali erano inseriti marchi e prodotti all’interno del codice stesso (similmente ai film, ovvero immutabilmente su pellicola, con la relativa risultante artistica estetica/visuale data dal sapore dell’opera definitiva). La tecnologia di Massive applicata ai VG va chiaramente oltre, permettendo di variare le inserzioni in base ai dati forniti dall'utente (sesso, età, preferenze di gioco) nonché di rilevare dati utili durante il gioco stesso, come ad esempio il tempo di esposizione verso specifici annunci. Se da un certo punto di vista la monitorizzazione delle realtà virtuali che presumono un advertising tende a “spiare” appunto l’attività del gamer, il fenomeno è tutt’altro che allarmante. A differenza del cinema il videogioco è difatti Lo spazio dinamico video-interattivo per antonomasia entro il quale tutto ciò che avviene sensorialmente grazie allo stesso determina polivalenti significati. Il testo di un VG è difatti una entità fluida, una continua riscrittura che il gamer ri-definisce ad ogni iterazione e con la quale finisce invevitabilmente con il “criticare” la realtà stessa attraverso ciò che nel gioco egli fa o non può fare. La dimensionalità ludica (I.Fulco), ovvero ciò che si "può fare" in un videogioco equivale ogni volta ad una ri-definizione esegetica della realtà stessa a cui il gioco rimanda. Ogni possibilità d'azione data dal gioco al videogiocatore, quando questi la fa valere all’interno del VG, crea difatti un sub-universo topico, una condensazione esegetica di una data porzione di realtà (virtuale) che rimanda necessariamente a quella reale. Gran Turismo diviene quindi una esegesi critica del guidare nella realtà, Call of Duty dell’uccidere in guerra (o dell'omicidio uccidendo compagni) e Grand Theft Auto eventualmente anche quella del comportamento (civile o meno) di guida urbana o del denigrare l'attività di prostituzione, ad esempio. Qualsiasi cosa avvenga all’interno di un VG, persino gli stessi “salti” compiuti da Super Mario, i suoi goffi scivoloni o il modo di camminare sensuale di Lara Croft informano criticamente sul mondo reale al quale il Videogioco necessariamente rimanda attraverso il verbo di ogni sua singola manifestazione digitale. Gli avatar del giocatore sono a tutti gli effetti dei canali, dei veicoli con i quali esprimere, contestualmente, un pensiero critico/esegetico che attraverso il virtuale rimanda al reale. P Il plot narrativo del videogioco è difatti una parafrasi della libera azione videoludica, e viceversa. Ciò comporta che il senso ideologico del videogioco è per sua natura la libertà d’azione del videogiocatore, tanto più marcata quanto più viene concessa dai game designer e dalla creatività del giocatore stesso (fenomeno di gameplay emergente). La libertà interattiva del gamer, vero e proprio co-autore del testo videoludico, attesta quindi già una ideologia di per sé, ontologicamente opposta alla fruizione passiva di un’esperienza puramente cinematografica. Di per sé quindi l’esperienza videoludica scongiura intrinsecamente l’eventualità di un Product Placement indiscriminato, per i quali anche semplici spot fra un livello di gioco e l’altro, magari dopo l’ennesima cocente sconfitta con un boss di fine livello, produrrebbero un effetto di irritazione verso il gamer che finirebbe per risultare controproducente per la stessa azienda promotrice. Al contrario del cinema quindi, l’attività videoludica rappresenta a tutti gli effetti una (v)ideologia refrattaria, lontana dalla promozione pubblicitaria indiscriminata, tanto più quanto la libertà di determinarne il testo risulterà fondante in futuro, come lo è oggi. Da un punto di vista di coerenza squisitamente artistico/espressivo/concettuale invece, in quanto al remake di Ultimatum alla Terra l’originale vale innegabilmente di più.l film in questione è Ultimatum alla Terra (2008, Scott Derrickson), di recente uscita nelle sale italiane e remake di The Day the Earth Stood Still (1951, Robert Wise).
asciando ora da parte i due colossi summenzionati, il remake di Ultimatum alla Terra nasce ideologicamente con l’intenzione di essere un film esplicitamente moralizzante, in grado di scuotere la coscienza degli uomini mediante un messaggio incontrovertibilmente votato a schierarsi contro l’Uomo in senso assoluto: un’indagine veicolata sulla moralità della politica economica nel mondo e sulle conseguenze psico-sociali dell’egoismo del genere umano.
In essi attualmente l’Advertising (o Advergaming) mira precipuamente ai giochi flash scaricabili gratuitamente dalla rete, grazie all’accordo tra Google e Mochi Media, un’azienda specializzata nell’inserimento di messaggi pubblicitari all’interno di giochi Flash.
er fare un esempio con Ultimatum alla Terra, se in un VG free roaming alla Grand Theft Auto e basato sull’universo del film il videogiocatore/Klaatu avesse avuto la possibilità di sparare contro l’insegna McDonald, o addirittura disintegrarla, il possibile sub-aspetto semantico creato da questa azione contestuale avrebbe creato un significato autonomo diametralmente opposto al dispotico Product Placement del film, scongiurando di conseguenza l’assoggettamento al principio di controllo avanzato invece dalla pellicola in questione.
Luigi Marrone (braunluis [at] hotmail punto it]
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Meltemi Editore ha bisogno del nostro aiuto.
Il problema: una crisi economica durissima che rischia di obliterare la piu' importante realta' editoriale italiana.
La soluzione: acquistare dei libri dall'eccezionale catalogo Meltemi, direttamente sul sito dell'editore.Linfa vitale.
Pubblico di seguito la domanda di appello di Luisa Capelli, anima e catalizzatore di Meltemi:
La mia selezione - caldamente consigliati
- quindici libri che ogni studioso di media, cinema, musica dovrebbe
leggere (evito ovviamente di citare lavori di amici per evitare
conflitti di interessi)
1 Alberto Brodesco, Una Voce nel disastro, 2008
2 Claudia Attimonelli, Techno Ritmi Afrofuturisti, 2007
3 Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, 2002 - capolavoro assoluto
4 Gino Frezza, Effetto notte, le metafore del cinema, 2006
5 Ian Chambers, Paesaggi migratori, 2003 - un classico
6 Gabriele Frasca, L'oscuro scrutare di Philip K. Dick, 2008 - indispensabile
7 Guido Ferraro, Isabella Brugo, Comunque umani, 2008
8 Nicholas Mirzoeff, Guardare la guerra, 2004
9 Guido Latini, Forme digitali, 2008
10 Bruno Barba, Un antropologo nel pallone, 2007
11 Davide Bennato, Le metafore del computer, 2003
12 Harold Innis, Impero e comunicazioni, 2001 - un classico
13 Giovanni Boccia Artieri, Media-Mondi, 2004
14 Francesco D'Amato, Sound Tracks, 2002
15 Enrica Tedeschi, Vita da Fan 2003- splendido
Ovviamente, la lista sarebbe molto piu' lunga e le mie omissioni sono imperdonabili.
Ma da qualche parte dobbiamo pure iniziare, no?
Ce la possiamo fare.
Buona lettura.
Scritto alle 12:24 nella News | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)
Ricordo
ancora l’emozione che ho provato nel lontano 2001, dopo essermi
imbattuto in un’avventura noir concepita da una dozzina di
programmatori arroccati in una piccola cittadina islandese, Espoo...
Mi basta guardare uno screenshot – per esempio, quello
pubblicato in questa pagina – per rivivere la rabbia e il
dolore che hanno accompagnato la scoperta dei corpi inerti di mia
moglie e di mio figlio, sterminati a sangue freddo da assassini senza
scrupoli... La sensazione di malinconia che pervadeva ogni locazione
di una New York crudele e indifferente... Ero rimasto ammaliato da un
sorprendente melange che prendeva a prestito l’estetica del
noir hollywoodiano e dei fumetti, l’intensità
funanbolica delle pellicole di John Woo e gli effetti speciali
avveniristici di “The Matrix”. Sto ovviamente parlando di
Max Payne, un’avvincente ‘storia’ di
espiazione e catarsi, violenza e vendetta. Un miscuglio di elementi
tipici del melodramma come dell’horror, con quel pizzico di
fantasy che proprio non ti aspetti – i continui riferimenti al
mito di Ragnarok e all’apocalisse descritta in mille leggende
nordiche. Il tutto intervallato da momenti e situazioni grottesche,
tipiche di un prodotto Made in Remedy Entertainment.
Per tutti questi
motivi, ho sofferto le pene dell’inferno durante la visione del
recente adattamento cinematografico diretto da John Moore. Alla luce
della sorprendente profondità ‘narrativa’ del
codice sorgente, non si può restare indifferenti di fronte
alla totale assenza di vitalità di una pellicola che si
colloca sugli stessi livelli di “Hitman”, altro
promettente adattamento imploso in fase di produzione. Come si spiega
questo ennesimo flop?
Sarebbe facile attribuire ai registi la piena
responsabilità. Ma tanto John Moore quanto Xavier Gens
(“Hitman”) sono dei bravi mestieranti, degli artigiani
competenti. Tutt’altro che geniali, ma pur sempre dotati di
talento. Il primo ha diretto una serie di pellicole di discreto
successo commerciale (tra cui l’action “videoludico”
“Behind Enemy Lines”), mentre il secondo è un
esponente di spicco della nouvelle vague dell’horror
estremo francese (che include, tra gli altri, film come “Haute
Tension”, “A L’interieur”, “Martyrs”
e, appunto, “Frontières” di Gens).
Sarebbe
altrettanto facile individuare negli sceneggiatori la ragione
primaria dello “scempio”, ma anche in questo caso,
finiremmo in un vicolo cieco. Dopo tutto, all’adattamento di
Max Payne ha partecipato uno degli sviluppatori del videogame,
Sam Lake, quindi non si può parlare di scarsa familiarità
con il testo originario. Similmente, la storia di “Hitman”
è stata scritta da Skip Woods, responsabile del discreto
“Swordfish”. Sul banco degli imputati restano solo due
figure: quelle dei produttori (è noto che la gestazione di
“Hitman” è stata particolarmente tormentata, ma lo
stesso vale per “Apocalypse Now” e per centinaia di altri
titoli) e degli attori (i commenti di Mark Wahlberg in fase di
pre-produzione – “Non ho mai giocato a Max Payne e
in generale mi tengo alla larga dai videogiochi perché temo di
diventare video-dipendente” – non hanno sicuramente
aiutato), ma anche in questi casi, la spiegazione non convince
pienamente.
I problemi di “Max Payne” e “Hitman”
non sono riducibili alle interpretazioni tutto sommato onorevoli dei
rispettivi protagonisti – Wahlberg in un caso, Timothy Olyphant
nell’altro. Dobbiamo allora concludere che il cinema dei
videogiochi non funziona per via delle differenze profonde che
sussistono tra i due media? In un certo senso, sì. La verità
é che Moore non ha adattato un videogame, ma ha assemblato
novanta
minuti di cut-scenes infarcite di cliché e di
stereotipi del genere action. La medesima accusa, beninteso, potrebbe
essere mossa al videogioco. Ma si finirebbe per perdere di vista la
natura interattiva del testo. Il cinema è narrazione,
il videogame interazione: acqua e olio. Il gameplay prevede
una successione di eventi debolmente collegati tra loro, una serie di
prove da superare, l’attraversamenteo di spazi di possibilità.
Un film è lineare e sequenziale.
Come tale, procede senza
l’intervento dello spettatore. Semmai, il vero cinema
technoludico è quello che assorbe per osmosi alcune
convenzioni del gioco digitale, reinterpretandole per fini narrativi:
l’effetto ghosting dei racing in “Speed Racer”,
le inquadrature allaTomb Raider nell’ultimo episodio
della “Mummia”, la logica del tutorial nell’altrimenti
pessimo “Eagle Eye”, la visualizzazione numerica delle
informazioni nei primi dieci minuti di “Stranger Than
Fiction”... Gli adattamenti funzionano solo quando sono
trasversali, indiretti, inaspettati.
In “Max Payne” di
giocoso non c’è proprio nulla. Non basta proporre scene
animate non-interattive all’interno di un videogame per
ottenere un film. Analogamente, non basta evocare le situazioni e i
personaggi di un videogame per creare un’esperienza
videoludica sul grande schermo. Finché Hollywood si
ostinerà a trasporre sullo schermo gli elementi meno
significativi e rilevanti di un videogame, la visione degli
adattamenti continuerà ad essere un’esperienza
“massimamente dolorosa”, per parafrasare il titolo di
quest’ultimo disastro.
Game over? Passiamo direttamente ai titoli di coda...
Scritto alle 12:22 nella Saggi | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)
Quando parliamo
di videogame, spesso tendiamo a dimenticare che essi fanno parte di un complesso
eco-sistema mediale in continua trasformazione. Detto altrimenti: nessun medium
è un’isola. Lungi dall’essere un’attività esoterica consumata da pochi
iniziati, il videogame svolge sempre più spesso il ruolo di catalizzatore per
l’industria del divertimento tout court.
Da qualche anno a questa parte, il videogioco sta letteralmente sussumendo ogni
altro comparto dell’entertainment,
dal cinema alla musica, dalla letteratura al fumetto. A guidare questa poderosa
convergenza transmediale sono corporation del calibro di Electronic Arts,
Activision e Ubisoft, ma anche milioni di teenagers, ricercatori universitari
ed hackers sparsi per il mondo. Partiamo dall’alto. Come sanno benissimo i
lettori di questo blog, il videogame sta vivendo una profonda trasformazione
causata, tra le altre cose, da fenomeni quali un’inaspettata ma travolgente espansione
demografica, l’innovazione tecnologica e una sempre più stretta integrazione
con altri comparti dell’entertainment.
Non deve dunque stupire che Ubisoft ambisca a diventare una factory multimediale in grado di produrre
videogame di eccellente fattura, ma anche film di animazione, effetti speciali
in computer grafica e produzioni televisive. Ubisoft sta inoltre progettando
l’ingresso nel settore dell’intrattenimento 3D – uno degli ambiti di
innovazione più interessanti dell’elettronica
di consumo. Anche in questo caso, parliamo di convergenza: è noto che le più importanti catene di cinema
americane stanno rapidamente convertendo i loro schermi al 3D e che Ubisoft sta
lavorando con James Cameron per realizzare la versione videoludica del kolossal
sci-fi ‘Avatar’.
L’acquisto dei diritti esclusivi dell’IP di Tom Clancy lo
scorso marzo riveste un’importanza cruciale per un’azienda che, tra pochi anni,
potrebbe competere ad armi pari con gli studios hollywoodiani. Nel momento in
cui il digitale si impone come lingua franca della comunicazione, il videogame
– che incorpora ogni codice e ogni estetica possibile – diventa il vero traino dell’innovazione.
Electronic Arts, da parte sua, sta applicando alla lettera il modus operandi dei Wachowski Bros, che
con The Matrix, hanno tentato di
ridefinire la nozione stessa di mega-produzione multimediale. In questo senso, Dead Space non è semplicemente un
videogame, ma anche un film di animazione, una serie a fumetti e, perché no, un
adattamento cinematografico per il grande schermo in attesa di regista.
Non è solo
una questione di marketing: Electronic Arts ha capito meglio di altri che la
costruzione di mondi finzionali ad ampio respiro richiede l’utilizzo intelligente
di tutti i media disponibili. Ma i migliori esempi di integrazione multimediale
sono fenomeni come Rock Band, Guitar Hero e SingStar: com’è noto, il successo di questi prodotti trascende la
dimensione puramente videoludica. Si potrebbe persino affermare che Rock Band e Guitar Hero, insieme ad iTunes, hanno salvato la moribonda industria
discografica, rilanciando interi generi i e perfino gruppi dati ormai per ‘finiti’
(uno su tutti: Metallica) – il fatto che una band leggendaria come i Sex
Pistols si sia temporaneamente riunita per registrare un la versione di “Anarchy
in the UK” inclusa in Guitar Hero ha
dell’incredibile. Analogamente, il fatto che le richieste del brano “Saints of
Los Angeles” dei Motley Crew su Rock Band
siano state cinque volte superiori rispetto ad iTunes e Amazon la dice davvero
lunga sull’entità delle trasformazioni dell’ecosistema mediale.
Xbox Live, da
parte sua, sta rivoluzionando il digital
delivery di contenuti audivisivi – la sua importanza, per il cinema e le
serie televisive in alta definizione, è seconda solo a quella di iTunes, per lo
meno negli Stati Uniti. Ma l’innovazione non passa solo attraverso le
corporation: centinaia di inventori, hackers, ricercatori e giocatori stanno
letteralmente ridefinendo il modo in cui produciamo, consumiamo e condividiamo videogiochi.
La presentazione video di Johnny Lee, ricercatore accademico del dipartimento
di Human-Computer Interaction della Carnegie Mellon University che ha
modificato un Wiimote per creare stupefacenti risultati, è stata visionata da
milioni di individui sparsi per il mondo. Usando una tecnologia a basso, anzi
bassissimo costo, Lee ha trasformato il Wii remote in una lavagna digitale, in
uno schermo touch-screen e un visualizzatore di immagini tridimensionali.
E
grazie ai contenuti generati dagli utenti (dai livelli hack di New Super Mario Bros ai nuove puzzle di echochrome, in attesa di Little Big Planet e Spore), la nozione stessa di longevità di un videogame va
completamente ripensata. Analogamente, il baricentro della creatività si sposta
verso il basso... Altri utenti stanno modificando a piacimento l’iPhone per
creare innovative applicazioni ludiche – tra le tante, si pensi alla versione multiplayer
di Pong (ribattezzata giustamente iPong) creata in un’ora (!) da una piccola
software house nipponica, Ubiquitous Entertainment (il video è ovviamente
visibile sul canale televisivo planetario YouTube).
La rapidità con cui le idee
circolano liberamente nell’era della connettività pervasiva e della condivisione
istantanea lascia senza fiato e lascia ben sperare per il futuro. Il presente e
il futuro dei videogiochi sono ormai sovrapposti.
Scritto alle 13:38 nella Progetti, Saggi | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)
Lo scorso luglio, il popolare servizio di video hosting Vimeo.com ha annunciato un’importante modifica alla sua policy. Nella fattispecie, il concorrente di YouTube ha deciso di non ospitare più le registrazioni di sessioni videoludiche realizzate dagli utenti (in particolare, “video realizzati da individui che mostrano immagini e sequenze di un videogame”). Blake Whitman, Direttore della Comunità del servizio, ha motivato la decisione in questi termini: “Lo staff di Vimeo non ritiene che le riprese dirette di sessioni di gameplay possano essere considerate un esempio di ‘espressione creativa’. In secondo luogo, questi video potrebbero spingere le case editrici che detengono il copyright dei videogiochi a intentare cause legali contro la nostra azienda. Infine, questi video occupano notevole spazio, molto più di ogni altro genere”.
Riassumendo, Whitman ha giustificato la decisione di rimuovere questa tipologia di video sulla base di due principi: violazione del copyright (legata alla presunta natura ‘non-creativa’ di questi artefatti) e alle dimensioni eccessive di questi file. Il divieto di hosting (e dunque di upload) non si applica tuttavia ad un’altra categoria di video, i machinima, che Vimeo considera invece un’espressione creativa a tutti gli effetti.
Questa notizia – apparentemente marginale – mi fornisce lo spunto per sollevare alcune importanti questioni sulla natura profonda dell’attività videoludica. Premesso che la reazione della comunità dei gamers all’annuncio di Vimeo é stata (prevedibilmente) critica – per non dire rabbiosa (al post di Whitman sono seguiti un migliaio di commenti, ma il vero dibattito si é svolto su Kotaku, Slashdot e altri siti) – l’aspetto che trovo particolarmente bizzarro é la tesi di Whitman per cui il gameplay non costituirebbe un’espressione creativa.
Si tratta di un’affermazione fortemente problematica. Il videogioco e' un medium partecipativo, che eleva il fruitore dal ruolo di consumatore a quello di co-creatore dei contenuti. Non solo. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il medium videoludico sa che la maggior parte dei prodotti in circolazione prevede una fruizione di natura agonistica e competitiva analoga a quella degli sport. Basterebbe questa osservazione per legittimare un’analogia tra il videogame e lo sport. Se così fosse – e non ho ragione per credere che il gaming non sia un e-sport a tutti gli effetti – la questione della creatività andrebbe interamente ripensata. Whitman sembra presupporre che nel caso dei videogame, il soggetto creativo sia il game designer, laddove l’utente si limita a consumare dei contenuti predisposti a monte. Questa interpretazione, tuttavia, é ingenua, se non errata. Torniamo all’analogia tra il videogame e lo sport. La ragione per cui milioni di persone seguono con religioso fervore la propria squadra di calcio preferita é per assistere alle imprese spettacolari dei fuoriclasse, alle imprese di invidivui talentuosi.
Il che mi spinge a domandarmi: chi é più creativo? Il performer calcistico o l’inventore delle regole del calcio? Nel caso del videogame: chi é più creativo, il game designer oppure l’utente? Dopo tutto, il primo si limita a fornire al secondo le regole e ad allestire il campo da gioco, il contesto di fruizione. Ma é chiaramente il secondo a fare lo spettacolo. Il famigerato raid di Leeroy Jenkins in World of Warcraft rappresenta un esempio paradigmatico di filmato che, pur essendo basato su una sceneggiatura, é stato girato “dal vivo”, senza alcuna post-produzione, usando come ‘set’ il celebre MMO di Blizzard. Per questo motivo, verrebbe bandito da Vimeo.
Nel momento in cui corporation del calibro di Electronic Arts e Sony promuovono attivamente la produzione di filmati videoludici da parte degli utenti (si pensi ai canali YouTube interamente dedicati a Spore e PixelJunk Eden, solo per fare due esempi recenti), l’idea che un mero filmato possa violare il copyright appare quanto meno discutibile. Il che mi spinge a sollevare un’altra domanda: chi possiede veramente il tempo che investiamo nei mondi videoludici?
I videogiocatori – che hanno regolarmente acquistato il gioco e investito ore, giorni, settimane negli spazi virtuali - oppure le software house che hanno creato tali spazi? E per quale motivo un utente violerebbe il copyright nel momento in cui decidesse di riprendere la propria performance per fini di documentazione?. Secondo il Center for Social Media, un gruppo di docenti ed esperti di copyright delle più importanti università statunitensi, la condivisione in rete di una registrazione del gameplay da parte di un utente non rappresenta una violazione del diritto d’autore. In un importante documento guida pubblicato nel giugno 2008, il Center for Social Media ha chiaramente indicato che la riproduzione e presentazione di documenti video che hanno la funzione di preservare, documentare, illustrare un’esperienza o un fenomeno culturale costituisce un servizio di pubblico beneficio e che, come tale, andrebbe difeso.
É questa la funzione svolta da siti non-profit come Internet Archive, che raccoglie – tra le altre cose – decine di migliaia di filmati videoludici generati dagli utenti. Un esempio particolarmente toccante é il messaggio di saluto di un appassionato di The Sims Online, che ha salutato i suoi compagni di gioco poco prima che Electronic Arts chiudesse i battenti del fallimentare MMOG. Per migliaia di persone – tra cui il giocatore britannico che ha registrato il suo struggente addio – The Sims Online e' stato uno spazio di interazione importante – é, o meglio, era, un serbatoio di ricordi.
Documentare le esperienze che hanno luogo nei mondi ludici é fondamentale perché se é vero che i giochi diventano una parte di noi, é altrettanto vero che noi stessi diventiamo una parte dei giochi che abitiamo. Non basta solo raccontare la Storia dei videogiochi, ma le storie dei videogiocatori. E' questo il lavoro che stiamo svolgendo a Stanford, nell'ambito del progetto Preserving Virtual Worlds promosso dalla Library of Congress degli Stati Uniti.
E la memoria storica é un bene collettivo, non proprietà privata.
Come tale, va difesa e conservata, al di la' degli interessi commerciali dei gatekeepers.
Matteo Bittanti
Commenti:
NRGiga scrive:
"L'argomento mi è caro dato che in qualche modo fa parte della mia tesi. In materia di copyright, alla luce degli ultimi titoli, viene spontaneo chiedersi se i contenuti creati siano del giocatore (sempre meno giocatore e sempre più autore) o del programmatore (colui che a priori decide cosa è possibile fare e cosa no e che quindi indirizza ed influenza l'operato del primo).
Da ciò che si vede, sembra configurarsi un doppio livello di "proprietà" (se così la si vuole intendere): il gioco mantiene i loghi della casa sempre ben in vista. Stages, creature e tutto ciò che viene prodotto dal basso mantengono il nome/user_id del creatore (è così per i Mii di Nintendo o per le crature che popolano la Sporepedia). Ovviamente, in questo ultimo caso, il guadagno che si ricava dall'essere investito del titolo di autore non è di natura economia ma è rappresentato dal "prestigio" dell'esserci (che magari basta anche a chi è parte delle comunità videoludiche). Per le considerazioni più profonde mi sento di rimandare agli scritti di Lasica e Benkler.
Circa il "video-testimonianza", non saprei dire se il "giocare" possa intendersi come una forma d'arte. E' indubbio che sia una chiara manifestazione dell'essere (che lo si voglia intendere come giocatore o essere umano) e di una intelligenza che si palesa giocando, nel modo del tutto personale in cui si superano i vari ostacoli. Mi viene da pensare alle discussioni che facevo con gli amici sul modo più efficace di collezionare le "99 vite" in SMB3.
Anni dopo, l'interazione faccia a faccia ha lasciato il posto ai file txt di Gamefaqs ed a Youtube in cui giocatori "esperti" caricano esaustivi footage dei propri match mostrando il risultato del tempo speso giocando: destrezza, bravura, intelligenza o semplicemente come superare il boss imbattibile o come ottenere la fatidica arma finale. Persino gli emulatori che girano sui computer sembrano prediligere il video testimonianza: molti hanno un plugin che permette senza sforzo di ottenere un file video che, con discrezione, registra ogni impronta che il nostro avatar lascia del suo passaggio nel mondo digitale. Che poi quell'avatar racconti molto di chi gioca è cosa nota." (NRGiga, 11 agosto 2008)
Scritto alle 14:39 nella Progetti, Saggi | Permalink | Commenti (2) | TrackBack (0)
Molti sapranno che Junoz Díaz ha vinto il Premio Pulitzer 2008 per la narrativa. Pochi, tuttavia, saranno a conoscenza del fatto che il 28 giugno scorso l’autore del bellissimo romanzo La breve favolosa vita di Oscar Wao (edito in Italia da Mondadori) ha firmato un articolo per il Wall Street Journal interamente dedicato a Grand Theft Auto IV. Nel suo apologetico intervento, il quarantenne newyorkese ha dichiarato che il best-seller di Rockstar Games non può competere con “The Sopranos”, l’epica serie televisiva di David Chase e tanto meno con alcuni leggendari gangster movie. Scrive Díaz:
“Pur trattandosi di un titolo eccezionale, Grand Theft Auto IV non presenta la medesima malvagità bipolare dei “Sopranos” ed é sicuramente privo del pathos epico e malsano che caratterizza film come “Il Padrino” e il suo sanguinolento fratello, “Scarface”. La vera arte cancella le apparenze e ci permette di scorgere il mondo nella sua cristallina limpidezza. La vera arte ci sconvolge per poi ricomporci, spesso contro la nostra stessa volontà. Così facendo ci rammenta in modo viscerale i nostri limiti, le nostre vulnerabilità, rendendoci, a tutti gli effetti, più umani. Mi chiedo se GTV IV possa fare altrettanto... Per quanto mi riguarda direi proprio di no”.
Il commento di Díaz trova una conferma (e, insieme, una smentita) nelle parole di Peter Travers, il critico cinematografico di Rolling Stone, che sul numero di giugno ha definito GTA IV “il miglior popcorn movie dell’estate”. Secondo Travers, ci troviamo di fronte a uno di quei rari videogame che “che si colloca nei territori di Scorsese e Tarantino”, “l’equivalente videoludico di un film noir [...] che svolge la funzione di critica sociale”.
A scanso di equivoci, vorrei precisare che provo grande rispetto e stima per entrambi gli autori. Allo stesso tempo, non posso nascondere le mie perplessità per questo tipo di esegesi. Ancora una volta, il ricorrente paragone cine-ludico – assai popolare tra i critici mainstream – rischia di mettere in secondo piano la natura peculiare del medium interattivo. La peculiarità, come sappiamo benissimo chi frequenta gli spazi virtuali, riguarda il ruolo fondamentale dell’utente, qui “promosso” al ruolo di co-autore del testo. Le implicazioni sono al tempo stesso ovvie e radicali: anziché proporre un confronto tra Francis Ford Coppola e Dan Houser, sarebbe utile ricordare che la forza di Grand Theft Auto IV e, più in generale, dei videogiochi, risiede nel potenziale narrativo attivato in tempo reale dall’utente.
Questo vale, in particolare, per i sandbox games come GTA e Crackdown, per gli MMO, per i construction games alla Trackmania... Parliamoci chiaro: ciò che rende la serie di GTA così interessante sono le modalità di consumo degli utenti, non certo il melange di stereotipi e cliché sviluppati dai game designer. L’ormai classico travelogue di Jim Monroe, “My Trip to Liberty City” ha portato in primo piano un aspetto del gioco che la maggior parte dei critici hanno ignorato o trascurato – le implicazioni squisitamente urbanistiche e sociologiche. Analogamente, quello che rende World of Warcraft così irresistibile sono le performance sbarazzine degli utenti (uno su tutti, Leroy Jenkins) rispetto che alle dinamiche propriamente ludiche definite a monte dagli ‘autori’. E lo stesso vale per il griefing di Eve Online o per gli incredibili tracciati creati dagli utenti di Trackmania United Forever...
Per questo motivo, un confronto tra Niko Bellic, il protagonista di Grand Theft Auto IV, e l’Al Pacino di “Scarface” é del tutto privo di senso. Un avatar é una maschera, una protesi, un veicolo, una strada da percorrere. Un attore cinematografico é un ruolo definito, una storia già scritta e dunque sempre uguale. Il videogame, a differenza del cinema, trasforma gli utenti in designer narrativi. Se un film racconta una storia, il videogame offre spazi di possibilità. Se lo specifico del cinema é il montaggio, si potrebbe affermare che quello del videogame é l’editor. Si pensi, per esempio, allo Spore Creature Creator, il programma distribuito da Electronic Arts a giugno che precede il lancio del videogame più atteso del decennio. Grazie a una semplice interfaccia punta e clicca, gli utenti possono creare i personaggi che andranno a popolare l’universo concepito da Wright.
É evidente che ogni singolo utilizzatore del programma diventa, a tutti gli effetti, un autore, un demiurgo, uno sceneggiatore di mille storie possibili. Stando ai dati forniti da Electronic Arts, a una settimana dal lancio dello Spore Creature Creator, legioni di fans hanno prodotto oltre un milione di personaggi, caricandole in quel gigantesco archivio in espansione che é la Sporepedia e condividendole su YouTube a conferma del potenziale di convergenza mediale del videogame. Spore infatti avrà un proprio canale YouTube dove tutti i video delle creazioni degli utenti importati dal gioco saranno presentati alla comunità online, pronti per essere visti, condivisi, valutati e commentati. In questo senso, YouTube sta diventando il cinema, o meglio, la televisione dei videogame.
Questo straordinario successo – che non presenta alcun equivalente in ambito cinematografico – ci rammenta ancora una volta la natura fortemente creativa (e post-narrativa) del nostro hobby preferito. Finché ci ostiniamo a usare metafore cinematografiche per spiegare il divertimento elettronico perdiamo di vista l’essenza di questo medium. La ‘vera arte’ del videogioco sta tutta qui.
Non sottovalutiamola.
Matteo Bittanti
Commenti
Emilio Bellu scrive:
La situazione è complessa, anche perché Sam Houser è il primo a invocare il cinema quando parla dello sviluppo di GTA. Houser dice che non riesce più a guardare i film hollywoodiani perché non danno la stessa adrenalina che dà uno dei suoi giochi: dice che una volta che sei tu il protagonista dell'azione, guardare dall'esterno rende tutto meno coinvolgente. Credo che questo sia fondamentalmente falso. Immedesimarsi in un film è molto più facile che immedesimarsi in un GTAIV: in un film stiamo seguendo un personaggio di cui conosciamo motivazioni, ambizioni, e che accompagnamo nell'inseguimento del suo obbiettivo.
Se il film è decente, noi usciamo mai dal suo mondo e siamo tutt'uno con il protagonista, nonostante non ci sia nessuna interazione attiva. In GTAIV il giocatore è completamente libero di seguire le proprie motivazioni e di fare tutto a modo suo, ma quando deve completare una missione, gli script che deve completare costringono il giocatore a seguire delle strade ben precise, e l'immedesimazione crolla perché le regole del mondo non sono più le stesse. Rockstar aveva trovato un buon modo per dare "senso" a questo aspetto: i protagonisti dei vecchi GTA erano completamente fuori di testa, le cut scene erano demenziali, i personaggi si comportavano in maniera completamente irrazionale, erano avatar schizofrenici. E proprio per questo erano coerenti con il mondo del gioco: non ti potevi aspettare un atteggiamento sensato da quei pazzi.
L'altra faccia della medaglia era rappresentata dai plot molto leggeri, praticamente inconsistenti... ma non è mai stato un vero problema. Nico Bellic è molto più "umano" dei suoi predecessori, e la sua storia non è presa di peso da un film famoso come Scarface o Boyz in the Hood, è un racconto piuttosto originale, ambientato in un mondo riprodotto con mostruosa precisione. E paradossalmente questo è motivo per cui IV è il capitolo della serie che peggio funziona nel far convivere scelta e storia: che credibilità ha un discorso di Nico sul rimorso del criminale se un attimo dopo può compiere una strage degli innocenti, creare un inferno in città facendo cadere granate dal finestrino? L'ambizione che rende il gioco fenomentale è anche il suo difetto peggiore, la bellezza di alcune cut scenes e la perfetta caratterizzazione dei personaggi del gioco è anche il motivo per cui sembrano spesso fuori luogo in una città che sembra regolata da un comitato di psicopatici.
La critica sembra sempre prendere i videogiochi e valutarli in compartimenti separati, ma preso in generale GTAIV è un gioco fantastico e un esperimento narrativo completamente contraddittorio: nel pensare a GTAIV come ad un'opera completa non si può fare a meno di valutare seriamente l'equilibrio tra lo script del gioco e quello che potenzialmente può compiere il giocatore, e questo è inesistente. Sarà interessante vedere come verrà gestito questo aspetto nei prossimi capitoli: la cosa buona è che Rockstar dimostra di voler sempre fare più di quanto sembra possibile, di andare ogni aspettativa, di riempire ogni gioco con tutto e il contrario di tutto... e questo è l'unico approccio sensato per un medium così giovane.
Scritto alle 08:23 nella Film, Games | Permalink | Commenti (2) | TrackBack (0)
Prima o poi doveva succedere. Uno speedrun di Oblivion sotto i dodici minuti.
Ecco il commento dell'autore, Xevro, pubblicato su WeGame.com...
"My new Speedrun. There's new stuffs in this one. I didn't put any sound because I recorded this run with the demo of GameCam and the demo don't take the sound. Though, I have no taste for the music too. There's no cheat and this video, just a lot of glitches and I set the difficulty at the normal, not like my old run. I cutted the end cinematic and around 20 seconds of the fight with the dragon because the max lenght of videos for youtube is 10 minutes. The time with the cinematic is 11:19. I'll don't improve this speedrun again. I think my next challenge will be to do the entirely main quest without the temple early glitch in less than 1 hour."
...E l'incredibile performance:
Per chi non lo sapesse, Lo speedrun è un
artefatto culturale particolarmente affascinante, che miscela cinema e
videogame, arte e performance sportiva.
Approfitto dunque di questa notizia per pubblicare di seguito un estratto del mio saggio "Giocare di corsa. Logica ed estetica dello Speedrun" incluso nel volume Intermedialità, Videogiochi, televisione, cinema e fumetti (2008) edito dalle Edizioni Unicopli. Per ulteriori informazioni, cliccate qui.
Buona lettura.
Giocare di corsa. Logica ed estetica dello speedrun
"Perché è scomparso il piacere della
lentezza? Dove
mai sono finiti i perdigiorno di un
tempo? Dove sono
quegli eroi sfaccendati delle
canzoni popolari,
quei vagabondi che vanno a zonzo da
un mulino
all’altro e dormono sotto le
stelle?
(Milan Kundera)
Velocità: (sf) rapporto tra lo
spazio percorso da un
mobile e il tempo impiegato a
percorrerlo
(Dizionario Garzanti)
Questo saggio è stato ispirato da
una duplice frustrazione. La
Nel
tentativo di ovviare a questa persistente
un’originale pratica di consumo
creativo ideata dagli utenti. Esamineremo
In secondo luogo, lo speedrun, al
pari dei filmati di replay, è
In terzo luogo, lo speedrun ha la
funzione di comprovare inequivocabilmente
esemplifica – e al tempo stesso
esacerba – la tensione tra la
Lo speedrun attesta la
sorprendente creatività
brevemente la storia di questa
prassi di consumo e ne porteremo
Link: Leggi il saggio completo incluso nel volume Intermedialità
Scritto alle 03:56 nella Saggi | Permalink | Commenti (0) | TrackBack (0)
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